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R I V I S U A L I Z Z A A R G O M E N T O |
marco |
Ciao Francesco, Visto che in questi giorni il forum è stato un po calmo, io propongo un nuovo dibattito. Non so quanto possa essere interessante, ma comunque... Il fatto è questo: oltre che a frequentare questo forum, frequento anche quello di avellinocalcio.net (sito dei tifosi dell'u.s. avellino); una volta, in un topic, si era acceso un dibattito nel quale si parlava dell'alta irpinia ed alcuni dicevano che gli abitanti dell'alta irpinia erano piu pugliesi che campani. Quel post ha attirato la mia attenzione e ripropongo la stessa domanda per quanto rigurda Montecalvo: in fondo, la cultura montecalvese (per cultura intendo: la lingua, il dialetto, la cucina ecc...) è piu vicina a quella foggiana o a quella napoletana? Per quanto mi riguarda, l'identificazione a Napoli e alla campania in generale è molto forte, infatti quando mi chiedono di dove sono rispondo sempre "verso Napoli...", anche se si trova a quasi 200km. Ma secondo me, l'influenza della puglia, visto la sua vicinanza, esiste realmente. E voi, cosa ne pensate? |
acorvino |
Ne foggiana, ne napoletana. Per diverse ragioni, sia storiche che demoetnografiche. Siamo assimilati a Napoli per via dell'appartenenza alla Campania, appartenenza sancita da una suddivisione politica recente che non trova riscontro nelle ragioni storiche. Per quanto riguarda Foggia, è vero siamo vicini, ma i punti di contatto sono davvero pochi. Storicamente abbiamo ragione di credere che le popolazioni che abitavano i nostri luoghi nell'epoca pre-romana fossero Sanniti, questi a loro volta erano Oschi. I napoletani, come per altro i Foggiani, hanno subito la forte influenza della Magna Grecia ma non sono mai stati Sanniti. Erano solo dei vicini di casa. Con l'arrivo dei romani i territori sono stati unificati per poi ridividersi più volte successivamente. Da un punto di vista culturale parlerei di una profonda differenza sia con Napoli che con Foggia. Montecalvo ed i paesi che insistono lungo i Tratturi, secondo alcune teorie, hanno dato vita alla "Civiltà della Transumanza". Infatti da Candela, in provincia di Foggia, fino a Pescasseroli, in Abbruzzo, quindi lungo l'intero tracciato, è possibile trovare tratti culturali simili. Sia nei cognomi, negli usi, nei costumi ed anche nella lingua parlata (in questo potrebbe esserci di aiuto Mario Sorrentino). Ad esempio è sorprendente la somiglianza delle ricette culinarie. In conclusione direi che l'accostamento con Napoli e Foggia sia una cosa relativamente recente che poco rispecchia la realtà dei fatti. Angelo Modificato da - acorvino il 25/10/2004 21:33:54 |
marco |
Grazie Angelo per la risposta. Ma non ti sembra, ad esempio, che il nostro dialetto abbia molti punti in comuni con i vari dialetti pugliesi? E poi, ho anche sentito dire che Ariano veniva all'epoca chiamato Ariano di puglia. Ma è vera sta cosa? |
abasile |
Salve!. Una delle cause dei punti di contatto del nostro dialetto con quello pugliese credo di averla già ipotizzata nel precedente post: la transumanza ha fatto sì che ci fosse un interscambio di parole, che non è avvenuto solo con la Puglia ma anche con il Molise e con l'Abbruzzo; certo il dialetto Pugliese ci ha influenzato di più per via della vicinanza territoriale e per i più frequenti contatti tra le nostre popolazioni e quelle pugliesi. Per quanto riguarda Ariano, è stata "di Puglia" fino agli anni '30, ma si trattava solo di una denominazione e non di una reale appartenenza sociopolitica. Probabilemnte la ragione della denominazione "di Puglia" va ricercata nella presenza della strada Regia che collegava Napoli con la Puglia ed Ariano era, per così direm l'ultimo avamposto, l'ultima stazione di fermata, prima del tavoliere Pugliese. Non mi risulta l'appartenenza di Ariano al Principato di Capitanata (FOGGIA), piuttosto apparteneva a quello Ulteriore(MONTEFUSCO), stiamo parlando prima dell'unità d'Italia, quando c'era ancora il Regno delle Due Sicilie. Comunque c'è da dire che si parlava di Montecalvo che, di fatto, pur essendo vicinissimo ad Ariano, non ha seguito da vicino le sorti della contigua città. Basti pensare che il nostro paese, il più vicino in senso geografico ad Ariano, non appartiene alla diocesi di ques'ultimo ma a quella di Benevento. Ed è sempre stato così!. Oggi forse questo può contare poco, quanto niente, ma una volta aveva il suo peso. L'appartenenza alla diocesi di Benvento proietta il nostro paese ancora una volta verso le zone interne, allontandolo, sia da Foggia che da Napoli.Angelo Modificato da - abasile il 26/10/2004 10:23:47
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acorvino |
Questo forum dà i numeri! Non capisco perché mi attribuisca il nick abasile! Misteri dell'informatica. Spero che adesso funzioni. AngeloModificato da - acorvino il 26/10/2004 14:19:08 |
alfonso |
IL DIALETTO DI MONTECALVO IRPINO Montecalvo Irpino è situato nell’Alta Irpinia nord-orientale e la sua parlata presenta affinità con i dialetti dell’Abruzzo, del Molise, del Sannio, della Daunia, della Lucania e della Calabria settentrionale, aventi tutti come sostrato l’antica lingua osca. Per scrivere i miei testi vernacolari nella parlata montecalvese, appartenente alla vasta famiglia del dialetto irpino, dopo attenta valutazione ho adottato l’ortografia fonetica. Questa parlata presenta la stessa varietà vocalica dei dialetti delle aree geografiche suindicate. La e tende ad essere muta, come quella francese, e nel finale delle parole s’avvicina al suono della i, come in fémmini (donne). La e aperta, con accento grave, si è conservata, come nelle parole bèlla, facènni, èriva, èscu, mèle, fèddra (bella, faccende, erba, esco, miele, fetta). La vocale o può avere due suoni distinti: aperto, ad es. in ‘ncòppa (sopra), oppure chiuso come in cócche (qualche). In finale di parola assume un suono indistinto tra la o e la u, es. dòppu (dopo). La j è semivocale o semiconsonante ed è associata a delle vocali, come ad esempio nelle seguenti parole: éja, uócchji, vìja, mìju, pilìji, manéja, ruzzéja (è, occhi, via, mio, scuse, maneggia, ruzza). I verbi all’infinito della prima coniugazione aggiungono quasi sempre ni alla desinenza finale che diventa à-ni: magnàni, fàni, assugàni (mangiare, fare, asciugare). È molto frequente il raddoppiamento della consonante iniziale: Lu ppane, a Ppasquàle, ci lu ffacéva e cci lu mmannàva pi Mmingùcciu (Il pane, a Pasquale, glielo faceva e glielo mandava tramite Domenico). È riscontrabile il fenomeno del betacismo, vale a dire la b che si sostituisce alla v: la balìgia (valigia), li bbìji (le vie), lu bbóle (lo vuole). Le vocali e ed o sono quasi sempre accentate per differenziarne il suono e l’accento tonico è indicato nelle parole tronche e in quelle con più di due sillabe. Non è presente il rotacismo, vale a dire la r al posto della d e neppure lo scivolamento del suono della a verso la e strascicata, come si riscontra nella parlata di Ariano Irpino, grosso comune limitrofo: rice (dice), rito (dito), quadrèra (invece di quadràra, ragazza). Un numero ristretto di parole presenta il suono fricativo, assai frequente nella parlata napoletana; io lo indico con il gruppo consonantico shc, come in shcanàta, pishcóne, frishchèttu, shcattàni, shcavóne (grossa forma di pane tondo, grosso masso, fischietto, schiattare, sedano selvatico). Il suono della cacuminale, di tipo occlusivo palatale, è indicato con ddr ed è presente nelle parole in sostituzione della doppia l, come in puddrìdru, quéddra, caddrìna, ìddru, quiddru ddrà (puledro, quella, gallina, egli o lui, quello là). Nelle parlate delle varie località della Sicilia si riscontrano due distinti tipi di cacuminali, come ad es. nelle identiche parole ìddu e ìddru (egli o lui), pronunciate differentemente. Nel primo caso la lingua assume una posizione occlusiva interdentale, mentre nel secondo ha una posizione occlusiva palatale. Il suono laringale, d’origine araba, è indicato con ghj, come in ghjucà, pi gghjìni, ghjurnàta, agghjurdàni (giocare, per andare, giornata, intorpidire). La consonante ‘n, qui preceduta dal simbolo dell’elisione, può significare in indicando un luogo, come ad es.’n casa, ‘n facci, (in casa, in faccia), oppure la negazione non, come ad es. ‘n ci va, ‘n zi n’èsce, ‘n ci véne (non ci va, non se n’esce, non ci viene). La s e la z sono due consonanti sibilanti e talvolta il suono della s muta in quello della z: Fònzu pènz’e ppènza e nun zi fa ccapàce (Alfonso pensa e ripensa e non si capacita). Nella coniugazione dei verbi, come ausiliario, si usa talvolta il verbo avere anche per quelle forme in cui in italiano si adopera l’ausiliario essere: es. àgghju jutu, ha statu, av’asciùtu, ave trasùtu (sono andato, è stato, è uscito, è entrato). Il condizionale non esiste ed è sostituito dal congiuntivo imperfetto o trapassato; es. lu ffacéss, ci minéss, ci fussi minùtu, mi lu ffussi magnàtu (lo facessi / lo farei, venissi lì / ci verrei, fossi venuto lì / ci sarei venuto, lo avessi mangiato / me lo sarei mangiato). Manca la prima persona plurale dell’imperfetto indicativo e in sostituzione di essa si adopera la prima persona plurale del passato remoto; es.: nuj’aspittàmmu, nuji pigliàmmu, nuji vinnèmmu (noi aspettavamo / aspettammo, noi prendevamo / prendemmo, noi vendevamo / vendemmo). Relativamente all’ortografia fonetica, rispetto al 1988, quando pubblicai il libro Lo zio d’America, con cui avviai il recupero creativo della civiltà agro-pastorale in Irpinia, nei 20.000 versi che ho scritto negli anni successivi, ho introdotto delle semplificazioni nella scrittura, da me ritenute ininfluenti sia per la pronuncia che per il significato delle parole. Così gli articoli indeterminativi ‘nu e ‘na sono diventati nu e na; le preposizioni semplici cu’ e pi’ (con e per) sono diventate cu e pi; nei verbi la cui vocale finale e è completamente muta, ho provveduto ad eliminarla, es. jètt, minètt, facètt, vinnètt, finètt’e partètt (andò, venne, fece, vendette, finì e partì). Zell, 24 maggio 2004 Angelo Siciliano
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acorvino |
?????????????????????! |
abasile |
Ci deve essere stata qualche confusione nel database del forum, visto che un post precedente di angelo corvino è stato attribuito a me dal forum. ciao a tutti. antonio |
Admin |
Chiedo scusa umilmente, per l'inconveniente sopra, agli amici Antonio Basile ed Angelo Corvino. Ho dato una controllata al database sembra tutto in ordine... Cordiali saluti – Francesco Qualche precisazione, a proposito del bellissimo post di Mario Sorrentino, appena sotto: la discussione è stata avviata da Marco…non vorrei prendermi dei meriti che non ho. Alfonso , nel suo post, si è limitato a citare un documento di Angelo Siciliano. Francesco. |
amsorr |
Caro Francesco, è un bell'argomento quello lanciato da te. Ho apprezzato quasi tutti gli interventi, anche quelli che, facendo apparire sintomi di un fenomeno che i sociologi chiamano frammentazione dell'identità culturale provocata da confusione riguardo all'"appartenenza", sono documenti rivelatori di una realtà che merita di essere studiata. Tutto può fondarsi sul concetto di "cultura". A patto però che si abbia sempre in mente che nei ragionamenti non rigorosi vengono spesso confusi due significati fondamentali del termine. Il primo si può definire come "il patrimonio di conoscenze, soprattutto teoriche, letterarie, filosofiche e scientifiche, ma anche tecniche" possedute da una o più persone; l'altro, come il "patrimonio di beni (immateriali come nel primo caso) ma che appartiene a un organismo sociale pù o meno grande, più o meno progredito rispetto a uno "standard" esterno che consente il confronto. E' questo secondo significato che può interessarci in questa discussione, perché è da esso che derivano i sentimenti sociali, ma anche individuali, di appartenenza e di identità. Parliamo, in altri termini, di cultura come l'intendono gli antropologi, i quali a cominciare dall'Ottocento andarono a studiare le entie cosiddette primitive rimaste isolate in Australia, Nuova Zelanda e Amazzonia brasiliana. Oggi però gli studi di cultura antropologica vengono applicati anche alle società cosiddette evolute. Ma in questo contesto gli studi più promettenti si fanno nelle comunità che, pur appartenendo politicamente a complessi cosiddetti evoluti, si sono trovati, o si trovano ancora, isolati socialmente, economicamente e soprattutto culturalmente. L'isolamento culturale, in questo caso, ha preservato tracce della tradizione soprattutto orali anche antichissime che consentono di risalire molto indietro nel tempo. Da ciò che dice Alfonso si può capire che il solo studio della varietà della lingua parlata in una comunità rimasta isolata dalla corrente normale della storia ci riporta a molti secoli indietro. Vedete che le sopravvivenze osche nel nostro dialetto ci riportano ai tempi in cui questa lingua scritta, usata anche per la letteratura, competeva con il latino per imporsi nell'Italia prima della Romanizzazione! Noi però siamo di Montecalvo Irpino, viviamo nel 2004! Però tutti siamo in grado di fare un sintetico excursus storico del nostro pase. Fondato probabilmente come comunità, però senza che nessuno si preoccupasse di darle un nome proprio, intorno al Mille, era costituito da Irpini scampati forse a guai e carestie. Con gli Irpini risaliamo al Sannio antico e precisamente a un gruppo che era organizzato politicamente nella zona nevralgica della Malvizza e San Eleuterio, verso Est,( e qui forse si può parlare più propriamente di Irpini-Dauni) o di Tressanti, verso Sud. Dopo e per secoli e secoli Montecalvo è rimasto un'isola da cui si scorgevano soltanto altre isole forse meno siggillate verso l'esterno: Casalbore, Buonalbergo e Ariano. Montecalvo manteneva spesso ferocemente la propria mentalità arcaica e le proprie tradizioni culturali di agricoltura primitiva e scarso allevanemto, almeno fino all'Unità d'Italia. Subito dopo è cominciata la frammentazione e la confusione che dura ancora oggi. Le cause: la miseria estrema dei contadini, l'emigrazione, prima trasoceanica, e poi europea, l'avvento delle lotte sotto le mentite spoglie delle "strane" ideologie dei partiti nazionali, l'omogenizzazione operata ultimamente dalla tv imbonitrice di bisogni fasulli, e altre cause che potete immaginare meglio di me. Però,in questo momento che cosa stiamo facendo? Stiamo adoperando Internet, nel parlare di questa nostra realtà culturale. Ciò ci potrebbe consentire di "creare" un Montecalvo virtuale sparso in mezzo mondo. Se ci sappiamo fare. Vedete che l'isolamento che ha danneggiato tante comunità rimaste sospese nel limbo della non-storia oggi può, per compenso, favorirle facendo sì che possono diventare comunità d'avanguardia (L'Irlanda, ad esempio, nel campo dell'elettronica). Come questo potrà succedere anche per noi? Bisogna fare e progettare (prima fare, cioè fare tentativi e poi progettare)) così che possa nascere questo Montecalvo che non si trova soltanto a Montecalvo. Ciao.Modificato da - amsorr il 27/10/2004 13:10:50 Modificato da - amsorr il 27/10/2004 13:12:12 Modificato da - amsorr il 27/10/2004 13:14:39 |
amsorr |
Cari amici del Forum, scusate se dopo aver spedito la mail precedente, intervengo ancora. Ma, rileggendo, ho trovato parecchi errori d'ortografia: entie per etnie, tenativi per tentativi,Itenet per Internet, ecc. Errori dovuti alla frenesia che mi prende quando parlo delle cose del nostro paese. Statevi bbuoni! Mario |
acorvino |
L'intervento di Mario Sorrentino offre diversi spunti di riflessione. Che le reti geografiche potessero creare società estese lo si sa da diverso tempo. Mcluhan ne parlava negli anni '70 quando teorizzò "il villaggio globale". La telematica (telecomunicazioni applicate all'informatica), quindi, crea le condizioni per realizzare la comunità virtuale che non è legata alla presenza fisica su un territorio ma da un legame "culturale" inteso come descritto nella seconda definizione da Mario Sorrentino. Questo era già chiaro nei primissimi anni '90. Quando ero ancora studente d'informatica con alcuni miei compagni e con i professori ci interrogavamo su cosa sarebbe successo quando sarebbero arrivate le reti, noi abbiamo studiato senza avere nella scuola una rete geografica, avevamo solo una rete locale che, tra le altre cose, ci siamo dovuti costruire con le nostre mani, saldando fili e facendo collegamenti, quando windows non esisteva e le reti si gestivano con complicatissimi software che non avevano nessuna funzionalità plug and play. Ora resta da capire come la telematica possa determinare uno sviluppo "sostenibile". Negli anni '90 chi si è trovato ad operare nel settore dell'informatica si è trovato davanti ad un grande problema: la generalizzata incapacità di utilizzare i nuovissimi sistemi informatici da parte della maggironaza della popolazione ed anche da parte delle aziende produttive (parlo della realtà delle nostre parti, ovviamente). Bene allora ci si è dovuti rimboccare le maniche e diffondere le necessarie conoscenze. Chiedo a Franco se si ricorda quando nel suo Pub parlavamo d'informatica di base, quando in giro non c'erano ancora tanti personal computer?. Ora siamo al punto che la telematica può determinare uno sviluppo, ma questo non è detto che avvenga automaticamente. C'è necessità di operare in questa direzione. Come? senza una linea ADSL? Senza compentenze di base da parte della gente? senza professionalità specifiche?. A mio avviso il discorso è estensibile, nel senso che è possibile "ridare dignità anche alle piccole realtà", come ho scritto in una pubblicazione a cui abbiamo partecipato come azienda, realizzata dalla scuole elementari, a patto che si lavori in questa direzione. Guardate che sviluppare questi nuovi settori potrebbe determinare anche un'inversione di tendenza rispetto all'emigrazione, potremmo, cioè, divertare attrattori d'immigrazione di persone interessate a lavorare in questi nuovi settori che sono svincolati dall'appartenza territoriale. Per lavorare in internet è indifferente se ci troviamo a Montecalvo o a New York a patto di avere le infrastrutture di base, che non sono ponti, porti o aereoporti, ma linee telefoniche veloci. In questo dovrebbero intervenire le pubbliche amministrazioni che possono favorire l'arrivo dell'ADSL, ad esempio, laddove l'attuale potenziale utenza non giustifica la spesa da parte delle società di telecomunicazioni. Questa è una cosa che ha capito molto bene il sindaco di Casalbore che ha creato sul suo territorio una rete wire-less per la connessione a banda larga ad internet, praticamente regalandola agli utenti, nella speranza che questo contribuisca ad attrarre investitori ad alto contenuto tecnologico nel PIP che si sta costuendo. E noi? Modificato da - acorvino il 27/10/2004 13:36:22
Modificato da - acorvino il 27/10/2004 13:37:53 Modificato da - acorvino il 27/10/2004 13:42:47 Modificato da - acorvino il 27/10/2004 18:18:53 |
amsorr |
iCaro Angelo, mi piace molto questo tuo intervento che, seppure tecnico, serve a gettare le basi per un agire "costruttivo", come si dice in politichese. Mi piaceva del resto anche la tua risposta a Marco, mi pare. Si torna sempre all'appartenenza. Per mantenere l'identità si deve per forza sapere che cosa e chi siamo stati. Credo che sia opportuno dire che cosa si può fare per scoprire meglio chi siamo, andando oltre il passato breve ricostruibile con la sola tradizione orale. Tu sai che Alfonso ed io, dopo avere aperto un discorso sulla comunità romana sepolta di Tressanti, stiamo ora scavando la Malvizza. La tua preziosa informazione su "lu uagnàturu" della Cristina mi ha confortato molto sulla ricostruzione etimologica del nome del nostro fiume. Be',per sintetizzare, che cosa stiamo scoprendo? Sono state la transumanza e,più di recente, la coltivazione estensiva del grano che possono definirsi le nostre radici distintive come comunità. Perché in quanto paese,persa l'appartenenza alla civiltà distrutta del Sanniti,la storia di fuori è venuta a visitarci per la prima volta con Garibaldi. Dopo l'Unità comincia una storia che ci può riguardare più da vicino,ma resta tutta da indagare. La storia antropologica, economica,sociologica e culturale. Ciao.
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acorvino |
Hai proprio ragione, caro Mario. Prendo lo spunto per parlare dei Sanniti che, ai più sono degli emeriti sconosciuti, ed, invece, sono i nostri nonni da un punto di vista culturale. Beh, mi ha sempre affascinato il "Ver Sacrum", la primavera sacra. Credo che sia opporuno darne una brevissima descizione a servizio di chi non dovesse esserne informato. I sanniti, si ha ragione di credere, erano un popolo seminomade, diviso in 4 popolazioni principali tra cui gli Irpini. Il fatto che fossero seminomadi non gli impedì di costruire città nel senso moderno del termine (ancora oggi ne restano evidenti tracce, per fare esempi a noi vicini basta andare ad Aequm Tuticum nel territorio di Ariano o ad Altilia nel territorio di Sapino). Si ha sempre ragione di credere che i quattro popoli fossero organizzati in uno "stato federale", qualcuno parla di un gran consiglio che si riuniva solo in caso di guerre, calamità naturali o altre cose di grande importanza, per il resto ogni popolo badava a se stesso. Allora perché semiomadi?, visto che avevano le città?, perché si cercava di ridurre al minimo l'impatto con la natura. Questo li portava al "Ver Sacrum" che era un rito che potrebbe essere paragonato alla nostra moderna emigrazione. In primavera, quando la popolazione era cresciuta troppo rispetto alle risorse che dava la natura in sé, un gruppo di persone, non si sa se spontaneamente o forzatamente, lasciava la comunità e, secondo la leggenda, seguiva il primo animale che passava. Il gruppo stabiliva la sua dimora dove l'animale si fermava. Gli Irpini,secondo la leggenda, seguirano un lupo, Hirpus in Osco. Bene! è straordinario come questo trovi semilitudini eccezionali nei "moderni" comportamenti delle famiglie di Montecalvo. Mi sono sempre chiesto come mai da noi, al contrario di quello che succede altrove, le famiglie tendono ad "espellere" i giovani. Se ci pensate, spesso si sentono cose del tipo: "te ne devi andare, qui non ci stai più bene, hai capito?". Cose dette a tante persone che conosco. Alla fine i giovani, stanchi di questi "ritornelli" prendono la strada dell'emigrazione anche perché, raramente, ricevono aiuti finanziari dalle famiglie per avviare attività in loco, magari, però, le famiglie gli danno i soldi per andare via. In altri posti, invece, ho visto genitori fari di tutto per tenere con sé i figli anche creando imprese da lasciargli un giorno. Da noi no!. Bene questo è un aspetto della nostra cultura che, secondo me, andrebbe analizzato altrimenti corriamo il rischio di girare in tondo. Scusate le chiacchiere. Angelo Modificato da - acorvino il 27/10/2004 18:43:36 Modificato da - acorvino il 27/10/2004 18:45:47 |
matteo |
Parlare del passato o ricercarne le tracce, vuol dire semplicemente una cosa. Che Montecalvo non ha una sua specifica realtà storica e tutti quei tentativi di fargli un'abito nuovo cozzano evidentemente con la storia che parla di altro, emarginazione, emigrazione, squallore sociale ecc.ecc.Il bisogno di recuperare il senso dell'appartenenza è insito in ciascuno di noi e per questo che il tarlo della memoria storica ci rosica quotidianamente.Ed è ovvio che quando, per varie motivi, primo fra essi quello di vita, non trovi in loco quello che cerchi sei mentalmente ed anche fisicamente predisposto a cercare nuove strade.Ed è ovviamente fisiologico ed umano, una volta rientrati, il confronto con altre esperienze acquisite e il volerle trasporle nella nostra realtà.Ma l'aticipità della nostra comunità e che le scoperte di natura storico sociale non vengono oppurtanamente divulgate ma restano nelle quattro mura di coloro che si sono saziate dal piatto della antichità.Il parlarne solamente non presuppone l'acquisizione automatica di queste notizie che resteranno solo dei pour-parler.Di frammenti di storia del passato Montecalvo ne è piena ma sono ancora nascoste negli archivi di famiglia e quando qualcuno le tirerà fuori saranno talmente "carulate" che sarà difficile decifrarle. Concordo con quando detto da Angelo e da Mario, che solo dall'unità d'Italia in poi si può parlare di storia quasi al presente. Ma di queste cose chi ne è a conoscenza? I moti del 1840 hanno coinvolto i paesani? Alla spedizione della Breccia di porta pia c'era qualche gruppo di militi locali? Mussolini è stato a Montecalvo? I montecalvesi come hanno partecipato alla liberazione degli Angloamericani dopo la seconda guerra mondiale? e soprattutto sapevano e discutevano dell'olocausto o pensavano a qualcos'altro? Qualcuno si è mai interessato di sapere chi erano quelle persone scritte sulle lapide commemorative delle guerre mondiali? Se oggi questi sono tutti interrogativi ancora aperti, qualchecosa a Montecalvo non è andato proprio come doveva andare e allora? Matteo |
Francesco |
Caro Matteo, come non darti ragione… Ultimamente il dott. A. Stiscia , non so se per provocazione, mi ha riferito che almeno l’ottanta per cento della storia di Montecalvo è ancora da scoprire…(di fatto soggettivo, ognuno di noi ha una storia) Costatiamo, comunque, che qualcosa di nuovo è all’orizzonte. Fino ad ora noi abbiamo conosciuto la storia di Montecalvo attraverso pochi testi grazie alle opere di Gianbosco Maria Cavalletti , padre Bernardino Santusuosso, Giuseppe Lo Casale, Antonio Stiscia. La tendenza , anche grazie a questo tipo di inziativa, vedi questo forum, è una voglia di riscoperta della nostra tradizione . Gli interventi di Sorrentino e Corvino, piu’ che interventi li chiamerei veri e propri saggi storico-culturali, sono da insegnare nelle scuole (ringrazio di cuore entrambi) Anche le istituzioni mirano in questo senso. La regione ha stanziato contributi per il Regio Tratturo e il recupero per l’arte enogastronomia, l’attuale amministrazione ha conferito incarico di consulenza storico-culturale al prof. Giovanni Cavalletti . Il poeta e scrittore montecalvese Angelo Siciliano è prossimo ad una pubblicazione sul dialetto montecalvese, infine il prof M.Sorrentino ha tradotto in italiano una pubblicazione di L. De Furia (bellissimo racconto sugli emigrati del luogo in America.) Saluti a tutti - Francesco
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alfonso |
Montecalvo Irpino e il Brigantaggio DI ALFONSO CACCESE Giuseppe Schiavone era un contadino di S. Agata di Puglia, che si era dato "alla campagna per non rientrare al servizio militare come recluta della leva del 1860", e, durante il 1862, come risulta da un attestato del suo Comune, si era reso responsabile di: a) riunione in banda di malfattori, grassazione e sequestro di persona in danno dei fratelli Granato di S. Agata; b) furto di un cavallo in danno di Di Rienzo di S. Agata. Nel 1863 si era reso colpevole di: a) attacco e resistenza alla forza pubblica; b) uccisione di quattro buoi e due muli, incendio della masseria di Lorenzo Mazzo di S. Agata. Inoltre, prese parte ad un massacro fatto nel comune vicino di Orsara, uccise il tenente Lauri della Guardia Nazionale, un capitano e il tenente Paduli; partecipò ai conflitti con il 20° Fanteria ed il 22° Fanteria ………………………… un fascicolo dell'Archivio di Stato di Avellino (fascicolo 397 del Tribunale di Ariano) comincia con una relazione di Antonio Zucchetti per i fatti di Giuseppe Schiavone e della sua donna Filomena Pennacchio, commessi nel 1863: "Nel mattino del 23 gennaio 1863 la banda brigantesca capitanata dal masnadiero Giuseppe Schiavone, forte di 30 malfattori a cavallo ed armati, si diresse alla masseria dei fratelli Cristino a Montecalvo. Nelle ore pomeridiane lo Schiavone, con Filomena Pennacchio ed altri due briganti, trasse alla masseria D'Agostino e richiese a lui un cavallo e del denaro, minacciandolo di sequestro. I malfattori intanto, per esser sicuri, sequestrarono il figlio del D'Agostino e lo condussero nell'altra masseria dove stava il resto della banda... Verso le due della sera, mentre il messo spedito dal D'Agostino ritornava col cavallo per portarlo allo Schiavone, un drappello di Guardie Nazionali se ne impadroniva. Immantinente due briganti Tedesco Fedele e Piccinno Antonio corsero ad affrontare la forza e sostennero per più tempo il fuoco contro la stessa, ma poi raggiunsero la banda dello Schiavone, cui narravano l'accaduto. Costui tratteneva ancora il sequestrato. Sopraggiunto il messo, che assicurò di esser caduto il cavallo nelle mani della forza, il sequestrato fu lasciato libero. Poco innanzi che la Guardia Nazionale si impegnasse nell'attacco coi briganti Tedesco e Piccinno, i coniugi Angelo Maria Marra e Nicoletta Vergaro, si fermarono lunga pezza a discorrere coi medesimi; dimandati sui nomi dei briganti, dissero di non averli riconosciuti, e la forza li ritenne in criminosa corrispondenza coi briganti"…………….. La storia di Schiavone è costellata di amori. Filomena Di Ponte era stata la sua prima amante, poi abbandonata perché Schiavone si era unito con Rosa Giuliani. Filomena trovò rifugio nel bosco di Persano e si unì alla banda di Gaetano Tancredi detto Trancanella, di cui divenne amante. Partecipò al massacro di otto contadini di Castelluccio, faceva scorrerie tra Eboli e Battipaglia, se ne andava in Basilicata cavalcando a fianco del capobanda, invano inseguita da Carabinieri di Muro Lucano. Trancanella fu ucciso in un conflitto nel bosco di Persano, e Filomena passò nella banda di Nunziante d'Agostino detto Scarapecchia. Anche di questi divenne amante, continuando attivamente nelle imprese brigantesche fino all'arresto, avvenuto nel 1865. Era ancora minorenne, era stata l'amante di tre briganti, e per la minore età ebbe solo quindici anni di lavori forzati per gli omicidi commessi, con altri e da sola. ……….……….. Il generale Luigi Pallavicino, venuto a comandare il presidio di Melfi, gli dava la caccia, ma a perderlo fu un intreccio di donne. La Pennacchio, il cui vero nome era Filomena De Marco, aveva sposato, giovanissima, un impiegato di cancelleria del tribunale di Foggia. Per la gelosia del marito, perché era "bella, occhi scintillanti, chioma nera e cresputa, profilo greco" (secondo la descrizione lasciatane dal De Witt), ed i conseguenti maltrattamenti, stanca alla fine, conficcò nella gola del marito un lungo spillo d'argento e se ne liberò. Ma doveva liberarsi anche lei dall'arresto, e si nascose nel bosco di Lucera, dove incontrò il brigante Giuseppe Caruso, e ne divenne amante. Ma divenne anche un'intrepida combattente ed una sanguinaria brigantessa. Anche Crocco la insidiava, e ci fu un duello rusticano tra Caruso e Crocco. Poi ci fu l'incontro con Giuseppe Schiavone, che per lei abbandonò Rosa Giuliani. La vendetta della Giuliani, tradita e abbandonata, provocò la rivelazione della masseria in cui si trovavano lo stesso Schiavone ed i briganti Petrelli e Rendina. E così il maggiore Rossi del 29° Bersaglieri poté catturarli. I briganti furono tradotti a Melfi e fucilati il 28 novembre 1864:
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acorvino |
Interessante post. Il brigantaggio è un periodo della nostra storia che per buona parte deve essere ancora esplorato a fondo. In materia, comunque, esistono diverse pubblicazioni locali, anche se il fenomeno non viene affrontato sui libri "ufficiali". In proposito sono stati scritti anche dei romanzi storici di cui "I fuochi del Basento" è quello più famoso. Diverse ed affascinanti sono le tesi che si susseguono sul fenomeno del brigantaggio: in molti casi viene liquidato come una forma delinquenziale, per altri, invece, si tratta di gruppi di patrioti che rimasero fedeli ai Borboni dopo l'unità d'Italia. In sostanza si tratterebbe di partigiani che continuavano a difendere la propria terra e la propria sovranità nazionale di fronte all'invasione Garibaldina che avvenne, come tutti sanno, senza colpo ferire, grazie all'astuzia di Garibaldi che fu capace di promettere, in separate trattative, terre ai nullatenenti e la salvaguardia del latifondismo ai grandi proprietari terrieri. Fu così, descritto in modo spicciolo, che il condottiero, l'eroe dei due Mondi, riuscì a tenere tutti tranquilli. Tranne i Briganti. Che questa sia la verità è tutto da dimostrare, certo è che il fenomeno, che ha assunto diversi nomi e diverse forme nelle varie zone del Meridione d'Italia, ha influnzato la Storia degli anni successivi. Altri ritengono, invece, che il brigantaggio sia stato la reazione dei nullatenenti alle false promesse. In sostanza, viste disattattese le aspettative, i diseredati avrebbero reagito dandosi alle scorribande. Il documento postato da Alfonso, però, sembra andare in altra direzione. Quando si parla che il contadino si è dato alla fuga per sfuggire alla leva. Bisognerebbe capire se la leva era imposta dal nuovo Stato o dal Regno delle Due Sicilie. Mi sembra che nel documento non sia indicata la data. Sarebbe interessante sapere lo Schiavone, che stando all'origine del suo cognome, dovrebbe essere uno dei diseredati, a chi stava sfuggendo. Mi pare si parli anche di Carabinieri che credo siano un'istituzione dello Stato Sabaudo, o mi sbaglio? Modificato da - acorvino il 29/10/2004 11:00:59
Modificato da - acorvino il 29/10/2004 11:07:17 Modificato da - acorvino il 29/10/2004 11:10:26 |
alfonso |
Caro Angelo, il mio post riprende solo l'ufficialità di documenti consultabili negli archivi del tribunale: va preso non come un documento sul brigantaggio ma come un fatto di cronaca con protagonisti alcuni Montecalvesi registrato nel lontano 1863. Comunque la tua nota è giusta e complementare all'argomento e precisa storicamente. Alfonso |
alfonso |
Pardon, ovviamente trattandosi del 1863, si parla già del Regno Italiano e se non ricordo male l'arma dei carabinieri anche se nata sotto il regno Sabaudo divenne con l'Unità d'Italia la prima arma a servigio del nuovo stato. Forse è pensabile che il brigantaggio si sia posto come ultima resistenza dei fiancheggiatori dei Borboni alla unità d'Italia. In questo senso una chiarificazione potrebbe essere il saggio breve del nostro compaesano, Arturo De Cillis, "Facite ammuine", sulla ostinazione dei Borboni a non voler perdere il regno. |
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